La Laguna Negra della coscienza. Dove annegano le vittime del Mediterraneo

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Tanto insondabile quanto la cattiveria degli uomini“. Così Antonio Machado – poeta e scrittore tra i più eccelsi nell’Olimpo dei grandi nomi della letteratura ispanica – definì quella pozza d’acqua gelida che ristagna tra scoscesi e rocciosi contrafforti nel cuore montagnoso del Paese, a 1.753 metri s.l.m., in provincia di Soria.

È la Laguna Negra, il laghetto di origine glaciale che visitai nell’inverno del 2012, cent’anni dopo che Machado pubblicò la leggenda che lo circonda. Ricordo che sotto gli aceri e i pini silvestri strisciava una lingua dura di ghiaccio, che si prolungava anche in parte sulla superficie dell’acqua, e il vento Cierzo, implacabile, zittiva ogni forma di vita là intorno. Effettivamente, ciò che si percepiva vicino al lago era un’atmosfera sospesa, inquietante, il lugubre strascico o l’eco della tragica storia che il poeta, a sua volta, aveva raccolto dalla memoria di un umile contadino conosciuto per caso da quelle parti.

Il resoconto del fortuito incontro riguardava un fatto di sangue, un crimine efferato commesso da due figli contro il proprio padre, da questi barbaramente trucidato e gettato nelle profonde acque della Laguna Negra per impadronirsi anzitempo dell’eredità.

Negli abissi della cattiveria umana è dove finì Alvargonzález, il capofamiglia di quella progenie disgraziata. E in quegli stessi abissi continuano ad annegare, ogni santo giorno della nostra moderna era, decine, centinaia, se non migliaia di vittime sacrificali, tirate giù con colpevole responsabilità da mani ugualmente assassine perché sudicie di cupidigia e di interessi immorali.

Pochi giorni fa qui in Spagna sono stati citati a giudizio 16 militari che, il 6 febbraio del 2014, in quell’avamposto iberico nel continente africano che è la città di Ceuta – per l’esattezza nella spiaggia di El Tarajal, – accoglievano a suon di proiettili di gomma e fumogeni un gruppo di disperati che provavano a raggiungere a nuoto la terra promessa. Almeno 15 migranti persero la vita, facile preda del mare e del panico.

L’identico finale che è toccato alle oltre 300 anime colate a picco, solo l’11 febbraio scorso, al largo delle coste di Lampedusa, ultimo eclatante caso di una tragedia annunciata e che si ripeterà.
Che il Mediterraneo sia un’immensa e insondabile Laguna Negra è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma ancora più abissale, proprio come suggeriva Antonio Machado, è la cattiveria umana, da un lato e dall’altro di questo mare: i governi corrotti che costringono il popolo alla miseria, i trafficanti d’armi e i signori della guerra che obbligano la gente a scappare, le multinazionali senza scrupoli (valga a titolo d’esempio lo scempio sociale ed ambientale che le nostre compagnie petrolifere stanno compiendo in Nigeria), i mercanti di schiavi e di vite, gli scafisti e i militari conniventi, le organizzazioni umanitarie non tutte senza macchia, l’ottuso egoismo di chi ha la pancia piena e colpevolizza chi non ce l’ha.

È un ventre nero senza fondo questo mare, avido di sangue e profitti, insaziabile e ingrato, tanto da permettersi di rispedire al mittente le 17 tonnellate di oro e argento (595.000 monete) che nel 1.804 gli vennero date in pasto con l’affondamento della fregata spagnola Nuestra Señora de las Mercedes, di ritorno dalle Indie. Si aprì un contenzioso internazionale quando, a partire dal 2007, la nave caccia-tesori statunitense Odyssey recuperò il bottino presso Cadice e se lo portò in patria. Dopo varie sentenze, ricorsi e appelli, il maltolto venne riconsegnato alla legittima proprietaria, la Spagna per l’appunto. La quale, seguendo la logica del profitto e della cupidigia di cui sopra, ben si vide dal restituirlo ai peruviani, gli autentici destinatari del rinvenimento. E non tanto perché quei dobloni provenivano dalle vene argentate e dorate delle loro Ande, quanto perché, nei lunghi secoli di dominazione coloniale subita dalle popolazioni autoctone, furono decine di migliaia gli indigeni ridotti in semischiavitù che in quelle miniere vi persero miseramente la vita, per rimpinguare le casse di signori senza scrupoli che se la godevano da questo lato del mare.

Narra Antonio Machado che i due figli di Alvargonzález, dilapidati ormai tutti i beni e assaliti dal rimorso, abbandonarono in tutta fretta la casa paterna. Ma durante la fuga, quando la notte li sorprese, spinti dai fantasmi della loro coscienza, caddero rovinosamente nelle gelide acque della Laguna Negra, inghiottiti dagli abissi dove già giaceva il corpo del padre morto.

I poveri innocenti finiti nella fossa comune del Mediterraneo non si contano più. Ma insieme a loro, in quell’insondabile profondità di cattiveria, prima o poi ci finiremo tutti, di una sponda o dell’altra di questo mare, dove pure affonderanno le navi cariche di razzie dirette ai nostri porti. E gli assassini del Mediterraneo, con le mani ancora insanguinate e sordi fino all’ultimo ad ogni richiamo di coscienza, nemmeno loro potranno sottrarsi dal passare il resto dell’eternità fianco a fianco alle spoglie del loro padre morto.

tarajal

Andrea Ortu

3 pensieri su “La Laguna Negra della coscienza. Dove annegano le vittime del Mediterraneo

  1. Proviamo a vederla in un altro modo. Con un grande senso della storia, noi che siamo, in fondo all’anima, archeologi. Qui c’e’ una popolazione che non necessariamente muore di fame o fugge alla guerra (ci sono anche di quelli, ma son la minoranza) e che vuole andare in un altro posto a cercar fortuna. Come tutti gli emigranti della storia non fanno molti calcoli: prendono il coraggio a quattro mani, si mettono le gambe in spalla e vanno alla ventura.

    Ho vissuto su una spiaggia di Dakar da dove partivano le piroghe che andavano alle Canarie, un viaggio ben più difficile di quello verso Lampedusa. Andavo sulla spiaggia a comprare il pesce e parlavo con gli aspiranti emigranti ed anche con gli organizzatori del viaggio.

    I primi non erano disperati, i secondi non erano tagliagole. Era tutta gente che sapeva quel che faceva e si prendevano, più o meno consapevolmente, ma mai del tutto ignari, i rischi che quest’avventura comportava.

    Gli emigranti sono gli eroi moderni; ormai che guerre ce ne sono ormai poche. Si sa che gli eroi, a volte, ci rimettono la vita. Ma sono eroi perch’ cercano per loro, per la loro famiglia e per i loro figli che verranno una vita migliore, in un posto dove qualcosa si può guadagnare, forse, e dove, soprattutto ci sono ospedali abbastanza funzionanti e scuole quasi gratuite.

    Io, al posto loro, farei lo stesso piuttosto che passare la vita a fare il contadino in mezzo ad una savana polverosa, sapendo che la cosa migliore che mi capiterà in vita mia sarà la morte.

    E ad ogni eroe si contrappone un antieroe, ovverosia lo str… di turno. E, nell’economia globale della storia, non ci può essere eroe senza antieroe; e l’eroe ci deve essere per costruire un futuro che nutre la speranza globale. Ecco, i disperati di Lampedusa, non sono più disperati: sono eroi che stanno facendo vivere la speranza di un mondo migliore (per loro, ma anche per noi) e muovono le tue dita sulla tastiera. E il bieco Salvini è necessario a far si che questi eroi ricevano il nostro tifo.

    Chi vincerà? Domanda inutile, la storia è dialettica!!

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  2. Grazie Marco per il tuo apporto sempre costruttivo nell’approfondimento dei temi trattati. Oltretutto, un apporto più che fondato dovuto alle tue esperienze di vita in ogni angolo di mondo!

    Ciò che mi sento di aggiungere al tuo interessante commento è che, in una prospettiva storica antica (che non può prescindere dal mito), abbiamo una grande eterogeneità di cause che hanno spinto gli uomini a migrare. Quelli alla Ulisse, che andavano a cercar ventura, a volte in modo ardito e rischiando la loro vita e l’altrui; chi fuggiva dalle guerre, come Enea, costretto ad abbandonare le rovine di Troia, dopo la disfatta della guerra; chi ambiva a migliorare le proprie condizioni economiche (coloro che andavano al seguito degli ecisti, i fondatori delle nuove colonie greche per il Mediterraneo), chi scappava da persecuzioni e carestie (le tribù di Israele nell’Egitto dei faraoni) e chi da catastrofi naturali (come il diluvio universale menzionato nel codice di Hammurabi).

    La casistica delle ragioni degli spostamenti dei singoli e delle masse, allora come oggi, è ampia e complessa, anche tra i migranti che annegano di questi tempi nel Mediterraneo. E la dicotomia tra eroe e antieroe che proponi in queste righe, secondo me la possiamo estendere persino agli stessi migranti, che sono eroi per il coraggio di affrontare anche la morte nel tentativo di migliorare la loro vita, ma nel lasciare la loro patria al proprio destino, di eroico non fanno nulla.

    Così come, sarà pur vero che non tutti gli organizzatori dei viaggi sono tagliagole, ma di testimonianze di casi di scafisti che buttano a mare i viaggiatori, costringendoli a morte certa, se ne contano a volontà.

    Non contesto ciò che riporti a proposito del Senegal, ma tra chi rischia la pelle provando a raggiungere Lampedusa e l’Italia, secondo le statistiche, ci sono tantissimi siriani, curdi ed eritrei, cioè persone che provengono, rispettivamente, da un Paese in guerra, da campi di rifugiati e da un governo dittatoriale.

    Purtroppo, caro Marco, non possiamo negare che la maggior parte di queste persone siano dei disperati. Eroi, se vogliamo, ma che la speranza di un’esistenza dignitosa in terra loro non ce l’hanno più.

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